Non è facile, non è semplice parlare del gesto, di un muoversi alternativo ma costante, di un flusso, una corrente in dissoluzione. Sembra quasi di dover descrivere una corsa disperata di persone ferite, fisionomici volti danteschi, dannati, una fuga a tratti arrestata di entità demoniache e umane nello stesso tempo, fragili e mostruose. Come una cantilena, una lunga catena di solidarietà.

Questo, una corrente di anime dolorose e ferite che si accasciano, crollano, cadono e si scontrano contro avversari inesistenti, contro vittime che sono carnefici, volti che sono sofferenza. La comprensione di una mano protesa, un abbraccio caldo, corpi così sensibili che si toccano, si sfiorano e infine si assemblano in mille emozioni differenti, gambe e braccia, mani che spuntano, aggrovigliano l’aria, fendono. Sembra quasi la gestazione della pietà, un parto lungo di anime indecise, un intendersi e un aspettare fatto di sussulti, contrazioni e rilasci, urla e sospiri, nodi di arti, volti.

Uno spaccato di umanità, una fuga collettiva frenata sul nascere, arginata dal palco, da quella che sembra essere una netta divisione tra la parte superiore della zona scenica e la parte inferiore come fossero due metà contese, dominate da forze differenti. Una rivolta di persone compatte che parte solida sul nascere ma poi si disgrega, si frantuma nella discesa dal palco dove gli attori cadono e le misure si perdono.

E Pasolini, cosa c’entra Pasolini in tutto questo, in questo scempio bellissimo di una dannazione sensibile e pietosa? A prima vista magari si è portati a dire nulla, ma in un secondo momento, se ci si mette a riflettere e ad analizzare, tanti elementi risultano evidenti. A partire forse dalla centralità riservata nello spettacolo alla fisicità, ad un contatto intimo e privo di paure tra i corpi degli attori, alla condivisione di esperienze sensoriali, di specificità fisiche proprie di ognuno, di questi attori che non sono veri attori sia perché il loro non è un reale muoversi recitando ed enfatizzando, sia perché non sono attori di professione ma gente comune, persone dai vissuti differenti, dalle anomalie diverse. Proprio quella fisicità e quella ricerca dell’attore non attore, dell’uomo comune che, se proprio non costituivano la centralità del discorso e del linguaggio pasoliniano, perlomeno rappresentavano il mezzo espressivo più efficace utilizzato dall’autore.

Inoltre bisogna anche riflettere sul titolo voluto dal regista Virgilio Sieni per lo spettacolo: Fuga Pasolini. Un intera coreografia che di per sé è una fuga costante realizzata a tratti, difficile, interrotta. Una fuga di persone e di dolori, una fuga interiore. La vita di Pasolini può essere definita per certi versi una vita costantemente in fuga, in fuga materialmente dal Friuli come in fuga interiormente da un proprio modo di essere molto tormentato e mai accettato fino in fondo. E forse è proprio questa l’intenzione dello spettacolo, mettere in scena il dramma di un’ interiorità compromessa, dell’anima di un uomo costretto, per scelta volontaria e autocondanna, ad essere costantemente esposto, anche per quanto riguarda la propria intimità, all’attenzione e alla gogna mediatica.

Una cosa è certa, il regista in quest’opera è riuscito a dare forma ad una crescita collettiva che ha permesso a persone che non avevano mai danzato o recitato di diventare attori magistrali all’interno di una coreografia per nulla semplice, riuscendo così a trarre gli elementi di forza dello spettacolo proprio dalle peculiarità e magari anche dalle mancanze di ognuno in un flusso di movimenti continui ed indivisibili fra loro.

Carlo Selan

Image Credits: Giovanni Chiarot