“venite, treni, portate lontano la gioventù
a cercare per il mondo ciò che qui è perduto.
Portate, treni, per il mondo, a non ridere mai più
questi allegri ragazzi scacciati dal paese!”
(La meglio gioventù, 1954)
Una storia che inizia così, con un volto di rosa, una meraviglia. Un racconto che è un’epica silenziosa della sconfitta e del sogno deluso, dei campi grigi nelle nebbie mattutine e dei prati umidi autunnali o primaverili. Cantiche, impressioni di un vivere per stagioni, assecondando lo scorrere di un’impetuosa ingiustizia, il letto arido e ghiaioso del Tagliamento, i paesi e le contrade, le feste, le domeniche. Un momento, una dimensione temporanea colta nell’eterna antitesi tra l’aspirazione e il reale, tra il sogno di un cambiamento e la perdita degli anni, della spensieratezza.
Si apre così la stagione di quest’anno del CSS Teatro Contatto, con una nostalgia che è un fuoco e un bagliore di sagre lontane, gesta quotidiane, una poetica degli ultimi, dell’essere giovani nella consapevolezza della finitudine. GiuseppeBattiston, sul palco assieme al suo amico e collega attore nonché musicista Piero Sidoti, si cala in una scena teatrale vagabonda diventandone il maestro, il romantico delle porte chiuse e delle suonate con gli amici nei campi, le corse in bici e secoli di Domeniche di Pasqua e Lunedì di fatica. Non c’è trucco, solo la sincerità delle liriche Pasoliniane, lette in friulano da Giuseppe Battiston con infinita passione, come tante piccole storie di molti, ritratti generazionali come fossero fotografie in bianco e nero sfocate ed ingiallite. Quasi un metateatro della tradizione, la riscoperta e la rimessa in scena di quell’arte comico-drammaturgica itinerante, da sagra di paese, un teatro che diverte, nato per celare, risollevare.Ma in fondo, lo dice Pirandello, la comicità é il volto moderno, la sembianza contemporanea della tragedia, di un sentire che ben si addice ad una terra, come il Friuli, di migranti, fuggiaschi per necessita, lavoratori umili, smarriti nelle vastità del mondo.
Quello che il regista Alfonso Santagata riesce magistralmente ad evocare in questo spettacolo, anche attraverso il costante riferimento agli scritti del periodo friulano di Pier Paolo Pasolini, è proprio quel Friuli agricolo e contadino, quel Friuli dei giovani cresciuti con da una parte l’idea di progresso e dall’altra la tradizione, del crocefisso posto accanto alla foto di Marx, delle lotte operaie ritratte da Zigaina e delle domeniche di festa e religiosità, il Friuli descritto proprio dallo stesso Pasolini in opere come “il sogno di una cosa”.
Non c’è finzione in questo spettacolo, solo la consapevolezza di aver perso qualcosa in un evoluzione e in una globalizzazione costante e progressiva che ha ormai coinvolto ogni aspetto del vivere quotidiano, ogni momento. È la consapevolezza dell’autunno freddo, del giorno dei morti, di quei corpi giovani che la terra friulana non l’hanno più rivista, perduti per sempre nei meandri di distanze incolmabili. Proprio come Pasolini, proprio come quella morte da cui esattamente domenica sono passati quarant’anni, quel recidersi di un giglio sporco e ferito, una papavero di sangue tra le spighe di grano. Metafore contadine, espressioni sintetiche di una terra che è stata ed è tuttora, a suo modo, poetica e malinconica.
Uno spettacolo commovente, semplice, di poche parole ma onesto, ruvido ma dolce. Una nostalgia grande, una consapevolezza ed un attualità evocativa sorprendente se si pensa a come ancora dal Friuli tanti giovani partano, seppur per ragioni differenti. E allora nulla, solamente grazie, grazie per due ore di pura poesia, grazie ad Alfonso Santagata, a Battiston e a Piero Sidoti, ma soprattutto grazie, un grazie infinito, a Pier Paolo Pasolini. Grazie.
Carlo Selan
Image Credits: Luca d'Agostino