Una crocifissione, una gogna lunga e sofferta, lo scandalo di un corpo teso nell’ansia della morte, entità fisica, sofferente, un sacrale dolore e infinito pianto di una madre che è archetipo, che è la rassegnazione, l’amore sfregiato, un pianto di donna sul corpo di un figlio morente, la pietà umile, dimessa e silenziosa. Un corpo martoriato e lasciato nel fango che non cessa di urlare, di invocare una comprensione, un’esigenza di comunicare e andare oltre, al di là dell’ambiguo che condanna, del pensiero interpretato.
Intorno alla figura di Pasolini si è voluto dire molto, si è voluto rileggere, affermare opinioni carenti di rispetto, povere di pensiero e forse anche di materia, si è cercato di fare di un uomo una bandiera, di un poeta un oggetto mansueto, comodo, da riutilizzare quando serve. E ora ecco, in uno spettacolo teatrale rinasce spontaneo e sincero un Pasolini che grida, che proclama a gran voce la poesia, i suoi versi più veri, ripuliti dalle incrostazioni mediatiche, dalle mistificazioni e dalle deformazioni. Una poesia che torna alle sue dimensioni incontestabili di ritmo e umanità, una poesia che si fa globale, che diviene contatto intimo e rivoltante, ribelle e morale, poesia di corpi nudi, poesia di affetti sazi e voglie dolci e oscene, muti terrori. Una voce che torna a essere supplica e perdono ma soprattutto sconfitta, che diviene flusso di proiezioni e movenze teatrali, volti e tratti appena accennati di contorni globali che non possono non delineare i reali confini di un mistero che si fa sacro e si fa profano, che si fa uomo e si fa Dio.
“Il sole e gli sguardi”, un titolo che è un verso, una poesia che è celebrazione di un’immolazione consapevole, di una sconfitta riconosciuta e accettata, un linguaggio che non può più essere compreso. Componimenti che si succedono vicendevoli, come una lunga narrazione, che plasmano la densità dell’aria, colorano i contrasti di luci ed ombre che dominano la scena. Uno spettacolo essenziale e minimale ma nel contempo ricercato e concettuale, pensato, studiato.
Luigi Lo Cascio riesce a fare di un palco teatrale lo specchio di un’anima, della recitazione una lama fredda e stridente, capace di ridestare e rimarcare il ritmo di poesie che, lette normalmente, sembrano quasi prose, conflitti di linguaggi. Una scenografia che riesce a rendere la cronologia di un’esistenza, i suoi continui scambi, l’eterno vagare incerto e obbligato, il vivere biografico di Pasolini, la sua fuga dal Friuli, Roma, infine la morte.
“ Venite treni, portate lontano la gioventù a cercare per il mondo ciò che qui è perduto!”, nomadi d’amore e di speranze, ragazzi miseri di realtà in estinzione, giunti alla fine, derubati di ogni cosa. Poesia che si fa racconto e diario, confessione aperta e dibattuta, poesia che si trasforma in espressione grafica grazie anche all’aiuto di Nicola Console, che nello spettacolo disegna dal vivo.
Maestria, capacità di delineare il mistero, di comunicare una difficile immediata non chiarezza, un contenuto che va riflettuto, introiettato. Momento artistico profondamente esistenziale ma non esistenzialistico, carico ma non pesante. Ermetismo non presuntuoso ma colmo di grazia, di simmetria calcolata. Insomma, vera bellezza.
Carlo Selan