“Sorry Boys”, lo spettacolo di Marta Cuscunà in scena l’8 marzo al Teatro Contatto di Udine all’interno della stagione del CSS Teatro stabile di innovazione FVG, ha registrato il tutto esaurito. Per questo evento la data non è stata scelta per caso (per chi non se lo ricordasse l’otto marzo è la festa delle donne) e nell’incontro svoltosi a seguito, cui abbiamo partecipato noi della Redazione TX2 insieme al pubblico, l’artista ha avuto modo di ricordarlo. Un immancabile pensiero è però andato anche a Giulio Regeni, nella speranza che, una volta per tutte, venga fatta luce su questa terribile vicenda.

L’incontro con il pubblico, svoltosi a fine spettacolo, è stato condotto e moderato da Rita Maffei ed ha visto la partecipazione di un pubblico molto entusiasta.

Credo che l’elemento da cui partire per l’incontro sia conoscere meglio i compagni di scena di Marta, in modo tale da comprendere la costituzione di questo spettacolo e i suoi movimenti in scena. Il tutto in una recitazione che richiede grande maestria non soltanto nel muovere le maschere, ma anche nel dare loro vita grazie alle diverse voci, che vanno a incrociarsi in un serratissimo dialogo: come riesci a muoverle e dar loro vita in questo modo?

Queste maschere sono state progettate da Paola Villani, giovane artista e scenografa, che ha coraggiosamente accettato di far parte di questo progetto, seppur con molte incognite. All’inizio, infatti, le ho portato alcune foto di Antoine Barbot rappresentanti teste umane su supporti di legno, come fossero trofei da caccia. Le ho chiesto di fare dei pupazzi che avessero sembianze umane realistiche ma che avessero anche la possibilità di muoversi. Inoltre avrebbe dovuto essere tutto smontabile e trasportabile nello spazio di un’auto.  Abbiamo iniziato a lavorare con parti di freni di biciclette, elementi semplici e facilmente recuperabili, e fatto calchi dei volti di alcuni volontari che ci hanno letteralmente prestato la faccia, accettato di stare mezz’ora con cannucce nel naso [per respirare] e completamente ricoperti da paste siliconiche… All’interno di queste maschere vi è uno scheletro composto sia da parti fatte artigianalmente, sia da altre ricavate grazie a stampe 3D. Sono invece cavi di bicicletta a rendere possibile il movimento del collo e alcune parti del viso delle maschere. Èstato davvero un lavoro lunghissimo, ci abbiamo lavorato per quasi tre anni…

Questo spettacolo è il terzo di una trilogia sulle resistenze femminili, i cui capitoli precedenti sono andati in scena anche qui a Udine. Dopo “È bello vivere liberi” e “La semplicità ingannata” ecco che arriva “Sorry Boys”. Come nasce questa trilogia?

La trilogia è nata in sostanza dal mio interesse per le tematiche femminili e femministe, ma nello specifico dalla lettura di un articolo della semiologa Giovanna Cosenza. In quest’ articolo si domandava come mai, se i dati economici ci dicono che non c’è parità tra i sessi, le giovani donne non sentono il bisogno di ribellarsi. Ha posto quindi alcune domande a ragazzi e ragazze all’interno dell’ateneo bolognese, chiedendo cosa pensassero riguardo queste tematiche, ed ottenendo risposte molto deludenti. Il femminismo è, infatti, visto da molti come un movimento oltrepassato, infatti molti hanno un immagine traviata del prototipo di femminista.

Quindi mi è venuta voglia di trovare esempi positivi di donne che avevano sentito il bisogno rivendicare i loro diritti e raccontare da dove erano partite. Prima quello di Ondina [Peteani], una storia di impegno civile, poi la vicenda delle Clarisse di Udine che già nel 1500, sollevarono questioni del genere molto prima del ‘68.

“Sorry Boys” è nato dopo che mi sono accorta che in tutte queste storie mancava l’elemento maschile. Uscivamo da teatro tutti soddisfatti da queste storie del passato, da queste figure di eroine positive, ma, alla fine, venivano tralasciate alcune domande fondamentali riguardo le cause di queste vicende. Ho quindi sentito il bisogno di affrontare esplicitamente il ruolo maschile, con l’idea che il concetto di maschile e femminile fossero profondamente collegati.

 

Ed è per questo che in scena non ci sono le ragazze, ma tutti gli altri personaggi, le madri e i fidanzati delle ragazze, giusto? E poi, come hai incontrato la storia di queste ragazze?

È stato facile entrare in contatto con questa vicenda, essendo essa stata, quando successe, un vero e proprio caso mediatico. La cosa interessante è stato trovare il documentario in cui sono intervistate alcune ragazze e in cui emerge l’elemento del femminicidio.

Ho cominciato a indagare il contesto sociale e da lì ho trovato un altro documentario dal titolo “Breaking our silence”, attraverso il quale ho scoperto la storia dei 500 uomini scesi in piazza a manifestare spontaneamente contro questo clima di violenza, in una cittadina in cui il livello di violenza era insostenibile. Basta pensare che, con una popolazione di appena 30000 abitanti, la polizia riceveva più di una chiamata al giorno per casi di violenza domestica. E quindi ho usato questa storia per dire qualcosa che a me premeva molto.

Rita Maffei: Ora dove si dirigerà il tuo lavoro al termine della trilogia?

In realtà non lo so ancora, sono davvero svuotata da questi tre anni di lavoro. Spero solo di riuscire a portare in giro questo spettacolo… dopo di che davvero non so verso cosa mi dirigerò…

Margherita Virgili