La sera del 12 marzo il palcoscenico del Palamostre per la Stagione Teatro Contatto è tornato primitivo. A partire dallo studio di Chiari del bosco della filosofa Maria Zambrano, la coreografa Simona Bertozzi, in collaborazione con Marcello Briguglio e Enrico Pitozzi, ha guidato il quintetto-branco di danzatrici – tra cui lei stessa – alla scoperta della materialità del proprio corpo, in costante dialogo con lo spazio e con il pubblico, chiamato innanzitutto ad abbandonarsi al palpitare primordiale di un’esibizione che esclude programmaticamente una narrativa.

Animali senza favola non racconta, appunto, una favola, non possiede una drammaturgia, ma si precipita nel vivo del divenire, della fluidità dell’esistenza, dell’apertura alle possibilità del reale, rifiutando il concetto e il suo potere deformante e normalizzante. Situata al livello anatomico dell’esistenza, Simona Bertozzi vuole evocare, più che raccontare: non c’è storia a giustificare la successione dei gesti, ma un’indagine volta a ricercare quelle fratture, quelle discontinuità che aprono a puri momenti d’essere, quelle “chiari”, quelle luci che appaiono fugacemente nel bosco di Zambrano.

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I gesti rappresentano gli elementi minimi di una grammatica fisica, che si combinano in frasi coreografiche, sapientemente intrecciate in un dialogo che si svolge innanzitutto tra i corpi delle danzatrici; i gesti sono moduli che vengono lasciati e ripresi durante lo sviluppo dello spettacolo, ma mai completamente riprodotti, mai completamente conclusi in un segno che si fa punto, ma anzi si aprono continuamente, sono attraversati da una forza centrifuga che ne impedisce una genuina circolarità. I movimenti delle danzatrici sono di volta in volta densi, materici oppure leggeri, ma inafferrabili e inesprimibili: come in un fugace bagliore, appaiono linee e figure in totale chiarezza, per poi subito reimmergersi nel flusso del divenire.

Tuttavia, non bisogna lasciarsi ingannare: nulla è lasciato al caso. Non c’è improvvisazione in Animali senza favola, dove la coreografia preserva l’essenzialità dell’agire nel suo farsi, senza però sacrificare la chiarezza compositiva.

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Le danzatrici-branco testimoniano il divenire con la sola presenza dei loro corpi: diverse per età, che va dai 20 ai 40 anni, e per coloritura performativa, esprimono forza, agilità, ma anche fragilità. Queste cinque donne inscenano una comunità, un gruppo i cui elementi sono in continua relazione tra loro, accorpandosi in gruppi di due, di tre, di quattro, dalle quali poi può emergere il singolo. Alla costruzione di un’immagine in comune si affiancano e sovrappongono le nuove immagini che via via si compongono davanti agli occhi degli spettatori, in un circolo incessante, in un meccanismo di eterna generazione, creazione e concepimento, che un gruppo tutto al femminile può ben rappresentare, soprattutto attraverso le evidenti posture che ricordano una situazione di parto.

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Gli spettatori sono posti di fronte alla continua tensione che muove l’interazione tra le danzatrici e quindi la trama coreografica. In particolar modo, Simona Bertozzi gioca molto nel dialogo con la giovane interprete Stefania Tansini, generando un confronto inter-generazionale ricco di pathos. Insieme a loro danzano Miriam Cinieri, Lucia Guarino e Tiziana Passoni.

La performance occupa ma soprattutto disegna lo spazio nel suo avanzare nel tempo: il branco si appropria di ogni metro cubo con disinvoltura. A partire dal suolo, assolutamente fondamentale per la coreografia così come per la danza in generale, tutti gli elementi naturali sono evocati e le luci, curate assieme al set-spazio da Antonio Rinaldi, quiete ed essenziali, scandiscono il tempo attraversando picchi di luce e momenti di massima penombra. La musica, composta da Francesco Giomi, passa dal silenzio al ritmo incalzante e viscerale; anch’essa riproduce una tensione, quella tra quiete e battito primordiale prorompente.

Il lavoro di Bertozzi è insomma uno splendido esempio di come la materia, nello suo stato più essenziale, può incontrarsi con il divenire del reale e allo stesso tempo con il pensiero e la riflessione, aprendo la stessa creazione coreografica al dialogo con le arti visive, la fotografia e la filosofia.

Anita Merlini