Il mio primo incontro con Virgilio Sieni, avvenuto nel maggio dell’anno scorso, è stato pressoché casuale: fu una mia amica a convincermi a partecipare al progetto “Fuga_Pasolini” organizzato e prodotto dal CSS e io, del tutto digiuna di danza contemporanea, ho provato a mettermi in gioco.
Sieni è stato un maestro alle volte duro ed esigente con noi “fuganti” – così ci piace appellarci tra di noi – ma a distanza di quasi un anno mi ritrovo costretta ad ammettere quanto sia stato prezioso il lavoro fatto con lui. In particolare, sono stata introdotta alla scoperta dell’“archeologia del gesto”, ovvero alla considerazione di ogni movimento delle mie ossa, dei miei muscoli, delle mie articolazioni come qualcosa di anatomico e pertanto ancestrale: in ogni mio gesto rivive il gesto del primo uomo, in ogni mia fibra respirano i corpi di coloro che mi hanno preceduto. Un po’ troppo romantico per i miei gusti, pensavo all’epoca. Eppure, assistendo a Dolce vita, ho riconsiderato il contenuto e il significato di tutto ciò che il maestro ha voluto trasmetterci. Effettivamente, non saprei descrivere meglio lo spettacolo se non con l’aggettivo “archeologico”: ridotta al minimo ogni sovrastruttura formale, sulla scena sono soprattutto i corpi nella loro verità materica ad esporsi allo spettatore. Il gesto è depurato da ogni decorativismo e si apre così alla fluidità dei movimenti, all’indagine delle loro possibili combinazioni e variazioni. In questa prospettiva, le opere pittoriche – soprattutto appartenenti all’arte rinascimentale, amatissima dal maestro – che la coreografia cita per tutta la sua durata non sono tanto l’obiettivo iconico che l’insieme dei ballerini aspira a raggiungere, ma rappresentano piuttosto l’eco delle possibilità fisiche di un corpo: ogni topos figurativo è condizionato dal ventaglio, amplissimo ma non illimitato, delle pose e dei gesti che un corpo può assumere.
All’archeologia del gesto si lega allora un’archeologia della passione, come suggerisce il sottotitolo dello spettacolo: l’analisi del gesto si approfondisce nell’analisi della tradizione figurativa che del gesto si è sempre occupata. Dunque, la storia della passione di Cristo, che Dolce vita vuole raccontare, si basa su una selezione di cinque momenti del racconto evangelico – Annuncio, Crocifissione, Deposizione, Sepoltura, Resurrezione – rappresentati in cinque quadri coreografici, in costante dialogo con la tradizione pittorica. Tutti i quadri hanno un inizio e una fine ben definiti; nelle transizioni trapela l’umiltà di un’esibizione che mostra in piena posatezza i danzatori che si cambiano, si preparano al quadro successivo, si aggiustano tra di loro, asciugano il sudore caduto a terra. Gli interpreti (Giulia Moreddu, Sara Sguotti, Jari Boldrini, Ramona Caia, Maurizio Giunti, Giulio Petrucci, Claudia Caldarano, MarjoleinVogels) costituiscono infatti una comunità, una seconda narrazione all’interno dello spettacolo. Ogni quadro è aperto dall’ostensione del titolo a caratteri cubitali, che inserisce un’interessante intromissione della parola scritta nella fisicità di Dolce vita.
I quadri sono strutturati secondo un movimento che guida la trama coreografica delle sezioni. Nell’Annuncio, un angelo fragile, incapace di portare l’annuncio, è la battuta d’inizio di un emozionante e delicatissimo viaggio nella narrazione evangelica della passione. Nella Crocifissione, il turbinio dei cappellini, che sembrano tratti da un quadro di De Chirico, si accompagna al riverberarsi delle braccia aperte, a ricordare il crocifisso, ma anche, come spiega Sieni, a indicare quel momento della storia dell’uomo in cui conquista la posizione eretta. La Deposizione gioca con la forza di gravità, e allora i danzatori rimangono sospesi su assi di legno in equilibrio precario, per poi abbandonarsi al suolo nella Sepoltura, dove il corpo è esposto in tutta la sua fisicità e nudità. Infine, la Resurrezione si presenta come una vera e propria trasfigurazione, un superamento della materialità e un’astrazione dalla temporalità.
Gli interpreti sono accompagnati nella loro esibizione dalla musica per contrabbasso composta e eseguita dal vivoda Daniele Roccato, mentre le luci – anch’esse soffici e lievi, come la musica – sono disegnate da Fabio Sajiz e Virgilio Sieni: la verità della scena è così esposta al massimo grado, la finzione è aborrita quanto più possibile, per una Dolce vita pacata, ma al tempo stesso densissima di pathos e mistero.
Vedere come spettatrice, dal di fuori, il lavoro del maestro Sieni mi ha permesso di apprezzarne le scelte, di comprenderne meglio le dinamiche, il cui risultato non è stato tanto un contenuto razionale, quanto un senso di meraviglia pervasivo, penetrante, che ancora mi accompagna e mi conforta di dolcezza.
Anita Merlini