Carlo Selan ha vent’anni e fin dalle scuole medie comincia a scrivere racconti e poesie. Si diploma nel 2015 al Liceo Scientifico “G. Marinelli” di Udine e ora frequenta il corso di laurea in Lettere all’Università di Trieste. Oltre a dedicarsi al nostro blog Contatto Tx2, Carlo non solo scrive poesie, ma le pubblica pure. È infatti uscita da poche settimane la sua prima raccolta, Periferie, presentata recentemente alla Libreria Friuli di Udine. Colgo allora l’occasione per fare una chiacchierata con lui al Teatro Palamostre e parlare di poesia, di Pasolini, di Udine.
D: Perché la poesia?
R: Quando ho iniziato a scrivere alle medie non mi sono neanche posto la domanda. È un linguaggio che è arrivato spontaneamente, un linguaggio che ha corrisposto a un’esigenza in maniera automatica. Ero molto chiuso in me stesso e non riuscivo a relazionarmi con gli altri, necessitavo di un metodo di comunicazione con le persone. Le mie poesie, infatti, sono un tentativo di comunicazione, si rivolgono sempre a qualcuno. Negli altri linguaggi mi sentivo inadatto: è stato qualcosa di naturale, non ci ho riflettuto troppo.
D: Allora è la poesia che ha scelto te?
R: Non funziona proprio così. Non mi piace considerare la poesia come un dono: la poesia è un linguaggio e come linguaggio va pensato.
D: Eppure tu scrivi che i poeti sono morti, che la poesia stessa è morta; citi il Languore di Verlaine.
R: In effetti sono riflessioni che sto facendo di questi tempi. Pasolini affermava che «la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non essere più compresi». Oggi si parla tanto di pubblico che non legge poesia, dei giovani che non seguono più la poesia, ma forse bisogna chiedersi se il linguaggio della poesia abbia ancora senso oggi. Prendiamo la poesia epica, o quella classica: Lucrezio esponeva la scienza fisica e metafisica in forma poetica, la poesia era conoscenza. Anche nel Decadentismo, l’ultimo periodo in cui si può fare una riflessione di questo tipo, si parla di bellezza, che è pura metafisica. Riportiamo questo discorso al dopo Nietzsche, al secondo Novecento o allo sviluppo scientifico: tu riesci a concepire un’idea metafisica rispetto a tutti i ragionamenti che ci sono adesso? Se la poesia deve avvicinarsi a una conoscenza metafisica, che senso ha oggi il linguaggio poetico? Semmai si potrà parlare di una conoscenza metafisica come la intendeva Montale o De Chirico, come l’idea di una ragione che si scontra con qualcosa che non può essere spiegato. Oppure ti ritrovi nella stessa posizione di Montale, dove hai un anelito metafisico che però ti riporta indietro: la poesia diventa il gioco degli sconfitti, qualcosa di costantemente deluso. O ancora deve essere ripensata l’idea di poesia, ma è qualcosa su cui sto ancora ragionando. Oggi molti scrivono poesie, basta guardare su internet. A prescindere dal discorso sulla qualità, le persone non si mettono a riflettere sulla poesia come linguaggio. Se non avesse senso, bisognerebbe smetterla di scrivere poesia, fare come Pasolini che si è dedicato ad altro.
D: Però tu utilizzi il linguaggio poetico: quindi ha ancora delle potenzialità?
D: Sì. Il problema è che io ho effettivamente scelto quel linguaggio, ma in maniera naturale: quel linguaggio per me ha un senso. È proprio questo il paradosso che mi distrugge: io sono l’evidenza che questo linguaggio ha un senso, quando sto dicendo che non ne ha.
D: Nelle tue poesie si nota un senso di frustrazione rispetto alla vita in città, con immagini molto fisiche, grevi, in cui poi appaiono sprazzi di luce, di bellezza, poi risucchiati nel magma grigio del cemento, della rabbia, della sofferenza. Cos’è questa bellezza che sembra schiudersi in attimi fugaci?
R: È anche per questo che parlo di periferie e dell’incoerenza delle periferie. La periferia per me è questo: vedere bellezza in un posto in cui non ti aspetteresti di trovarla. Robert Frost, anche se sembra una frasetta inutile, scrisse che la sua vita è stata una lite d’amore con il mondo: è interessante il paradosso di un’esistenza che non puoi spiegare e quindi vorresti poter negare, ma che allo stesso tempo si palesa a volte in una bellezza, che è forse prodotto del caos, o di qualcosa che non puoi spiegare, ma che è una bellezza così bella che genera amore. Io non so spiegarti la bellezza: il desiderio di metafisica non viene mai esaudito. Sono delle piccole epifanie originate dal caos, che emergono in atti di straordinaria bellezza che poi viene risoffocata in quel caos. È un’eterna sconfitta.
D: Infatti non descrivi mai questa bellezza: la accenni, al massimo descrivi la situazione nella quale essa si genera.
R: Paul Éluard scriveva che la forza della poesia è nel riuscire a rendere immagini più dell’arte visiva: chi guarda un cavallo in un quadro, vedrà un cavallo particolare, mentre il cavallo in poesia diventa un effetto universale. Attraverso l’immagine poetica si può evocare, richiamare un’immagine. È tutto il contrario di descrivere attraverso parole, che non è poesia, forse neanche prosa, ma solo pensiero.
D: Quindi la tua può essere definita un’arte del non dire?
R: L’idea è quella: andare oltre, se c’è un oltre. C’è sempre un vuoto, un non dire: perché non riesci a dirlo, perché c’è sempre una parte non compresa.
D: Abbiamo citato finora alcuni autori, per cui ti chiedo: chi ti ha ispirato? Qualcuno ha segnato una svolta in maniera particolare?
R: Nel pezzo di prosa che apre la mia raccolta cito Camus e Alberto Dubito, un poeta urbano con immagini molto forti, molto vicine alle mie. Come condotta di vita mi rifarei al secondo Camus; sicuramente come pensiero è stato uno dei personaggi che più mi ha formato. Camus insieme alla lettura di alcuni libri della Bibbia sono stati il passaggio fondamentale. I libri sapienziali, come il libro dei Salmi, il Cantico dei Cantici il libro di Giobbe, Kohelet possono essere letti come prescrive la Chiesa, ma possono anche portare anche all’ateismo, soprattutto dal momento che io nutrivo un senso di insoddisfazione generale verso la vita. Poi certamente Ungaretti e Leonard Cohen, che oltre che cantante è anche poeta. Quando ero piccolo avevo comprato Vita di un uomo, praticamente ci vivevo. Mi hanno influenzato tutti i poeti Beat, soprattutto Gregory Corso, Allen Ginsberg, Duncan, Lamante, Kerouac, Jim Carroll o anche Hubert Selby Jr. Senza dimenticare Montale: mi hanno detto che ne ho fatto citazioni involontarie; ad ogni modo mi hanno ispirato soprattutto le sue riflessioni. Poi anche il Decadentismo e tutta la poesia romantica inglese, forse il periodo più bello della poesia e Shelley in particolar modo. E per finire Tavan, un poeta friulano molto particolare, nato in un luogo in cui la sua straordinaria sensibilità fu presa per pazzia, che lui ha deciso di coltivare. Nella sua semplicità è molto onesto, molto forte. Veramente fuori dagli schemi.
D: Entriamo più nel vivo della tua raccolta, Periferie. Perché ti sei interessato proprio alla periferia di Udine?
R: È molto interessante la periferia di Udine. Udine è molto piccola, non ci vuole nulla per arrivare dal centro alla campagna. La periferia è un non luogo senza reale delimitazione: non sai esattamente dove sia e quale sia, o se si tratti effettivamente di periferia o non sia altro. È un luogo che esiste ma non sai se esiste, non sai delimitarlo, non ha tutele, è una realtà particolare. Sono degli spaccati urbani in una città che è molto lontana dal poter essere definita una realtà urbana.
D: Perché la tua raccolta si chiama Periferie?
R: Volevo proporre un’indagine del concetto di periferia, come in un ritratto cubista, da più punti di vista: è un luogo fisico, un tentativo di esistere, il sentirsi di provincia, periferico rispetto agli altri. Io sono sempre al margine con le altre persone, è una situazione costante. È questa l’incoerenza delle periferie, è difficile spiegarlo. Io non voglio giustificare il degrado, dico solo che c’è una bellezza innegabile anche nella devastazione e nel cemento. La periferia diventa un insieme interessante di immagini poetiche, la periferia è il luogo dove rubare visioni di palazzi e di cemento, di cieli, di strisce di aerei.
D: La tua poesia è un rubare immagini? Come nasce una poesia in te?
R: Nasce in un momento, in una situazione che ne sblocca tante altre: tanti modi di essere e di stare, di sentirsi, si concretizzano in tante immagini sparse, collezionate nella memoria. È un’occasione per un‘epifania. Di solito all’inizio sono preso da sentimenti abbastanza forti, quindi prendo nota e poi rielaboro tutto, anche per una migliore scansione ritmica.
D: Che lavoro fai attraverso la parola, sul linguaggio formale? Scrivi in metrica?
R: Non ho una metrica, mi rifaccio più a una ritmica. C’è un ritmo che va rispettato e che deve adattarsi alla situazione. È una questione di accenti, di giuste cadenze. Adesso mi sto concentrando su questo, sulla sonorità, sul suono delle parole.
D: E per quanto riguarda il linguaggio, il lessico?
R: Ho fatto la scelta di usare un linguaggio comune. La tradizione italiana ha sempre preferito un linguaggio aulico: certamente la parola è fondamentale, ma questo non vuol dire utilizzare per forza questo tipo di lessico.
D: Tuttavia la ricerca di un linguaggio semplice non impedisce alla tua poesia di risultare difficile a volte, molto densa e opaca. Ti riconosceresti nell’etichetta di “ermetico”?
R: La poesia dovrebbe essere divulgativa, deve sempre prevedere un interlocutore. L‘ermetismo non è un problema: scrivere una poesia difficile da capire dall’esterno può essere un’operazione interessante, può comunque dar vita a delle riflessioni. Io diffido delle cose troppo facili da capire. La poesia può piacere o non piacere, può essere capita o non capita. La poesia ha il suo modo di esprimere le cose, può risultare difficile anche per quello. Anche gli haiku, che mi hanno ispirato molto, sono fatti per non essere capiti: l’idea è che bisogna andare oltre, arrendersi al fatto che la ragione non può capirlo.
D: Qual è la scintilla che vuoi accendere nei tuoi lettori?
R: Cerco di passare una domanda più che un messaggio chiaro e limpido. È un interrogarsi, uno spingere a interrogarsi. Mi ritrovo molto in quello che affermava Pasolini, secondo cui la poesia dovrebbe avere due significati, uno esistenziale e l’altro sociale. Le due cose non si contraddicono: l’esistenziale può avere un impatto sociale e viceversa.
D: Le tue poesie, come tu stesso scrivi, sono una cronaca della vita a Udine fino alla fine del liceo. Ma ora che hai cominciato l’università è cambiato qualcosa nella tua poesia?
R: In effetti è un problema. La poesia che scrivevo andava bene per la realtà che io vivevo. Yeats definiva la vita in circoli che nascevano e si chiudevano. Credo di essere in un periodo di mezzo: un circolo si è concluso e ora sto cercando i paradigmi per affrontare il nuovo circolo. Ultimamente sto scrivendo poesie diverse, sto cercando una nuova forma.
D: Quali sono le tue speranze e aspettative nel breve termine?
R: Mi piacerebbe portare la mia poesia in giro, ma non ti danno molta possibilità di farlo. È una realtà abbastanza difficile, è complicato fare promozione, soprattutto se hai vent’anni e non sei nessuno.
D: Quale è stata la soddisfazione più grande che ti ha dato la poesia?
R: Mia nonna è in una casa di riposo. Essendosi rotta l’anca ha dovuto aspettare che si risaldasse, distesa su un letto. Appena ho pubblicato la raccolta sono andato a portarle una copia: era smunta, magra, soffriva di un dolore palpabile, era stordita dai farmaci. Stava mangiando, con la mano tremante: quando ha visto il mio nome sul libro ha mollato tutto e ha cominciato a dire che non ci credeva; era molto contenta. Ha letto dei versi e ha detto che stavano descrivendo la vita, che esprimevano situazioni vere. Cose da farti capire di aver fatto la cosa giusta, da farti venire da piangere.