Noi del Blog TX2, recentemente, abbiamo incontrato e intervistato il musicista Michele Budai al Palamostre per parlare del suo lavoro con Ospiti in Arrivo, dei suoi laboratori musicali condotti nelle case circondariali del territorio friulano e dei suoi progetti per il futuro. Musicologo, musicoterapeuta, insegnante di canto armonico, appassionato di meditazione, della tradizione medio orientale e del volontariato, si laurea al D.A.M.S. indirizzo storico musicale e si diploma presso il C.E.M.B. di Milano con una tesi sulla musicoterapia ed il ritmo.
Nella mezz’ora di tempo in cui abbiamo parlato, è riuscito a trasmetterci il vero significato della parola “musicoterapia” e tutta la sua passione per questa disciplina.
C’è stato per lei un primo avvenimento che le ha fatto capire che avrebbe voluto dedicare la propria vita alla musica? Se lo ricorda?
Allora, questa è una bella domanda. In realtà è più un ricordo che mi è stato riportato: quando ero molto piccolo (non avevo ancora compiuto i tre anni) mia madre mi ha detto che, guardando in televisione un assolo di batteria di Tulio De Piscopo, sono andato da lei e le ho detto che avrei voluto diventare il più bravo batterista del mondo, cosa che non è successa ma, comunque, le percussioni sono diventate una parte abbastanza presente della mia vita. Da quello che mi ricordo, fin da piccolo, quando mio padre cantava alcune canzoni tipiche friulane, avevo un piccolo metallofono su cui riproducevo queste canzoni, e da quel momento bene o male ho sempre frequentato vari strumenti musicali.
Quale importanza ha musica per lei e cosa s’intende per “musicoterapia”?
Questa domanda meriterebbe, credo, alcuni giorni di approfondimento, perché con “musicoterapia” si intende un insieme di discipline molto vasto. Per me la musica è molto importante semplicemente perché è parte dei miei stati d’animo di tutta la giornata. Io, effettivamente, vivo con la musica. Che sia suonata o sia ascoltata, in qualche modo la musica mi condiziona e io stesso, attraverso la scelta di determinati generi musicali, condiziono i miei stati d’animo. Comunque, tendenzialmente, per “musicoterapia” si intende l’usare la musica in modo o attivo, quindi far suonare le persone, o ricettivo, quindi far ascoltare suoni alle persone, per far sì che il contenuto emotivo e alcuni contenuti profondi della persona possano riuscire ad esprimersi attraverso la musica, essendo il suono un linguaggio molto diretto. Quando una persona riesce a cambiare la propria percezione cambia anche il proprio punto di vista e riesce a vedere la situazione in maniera diverso, riesce ad avere un’immagine di sé differente. Tendenzialmente si tende a lavorare sul sentire, per cercare di dare maggiore dignità alla persona.
Qual era lo scopo principale del laboratorio di percussioni realizzato in collaborazione al CSS e all’ONLUS e come le è venuta questa idea?
In realtà, questa idea è nata proprio grazie al CSS. Io, personalmente, avevo già fatto diverse esperienze di volontariato, è qualcosa che mi ha sempre interessato. Non so come ma il CSS abbia deciso di proporre a me questo lavoro ma è stato interessante perché comunque ho avuto a che fare con una realtà… complessa. “Complessa” nel senso che solitamente i laboratori di percussione, ossia la maggior parte dei laboratori che faccio, li faccio con persone del luogo che comunque vivono qui o magari anche con bambini extracomunitari, ma restano comunque bambini abbastanza integrati. Queste persone invece portavano un contenuto emotivo importante perché, al di là di un’apparente serenità, avevano alle spalle delle storie importanti. Se si osserva queste persone, si nota che hanno inconsciamente cercato di assumere una struttura occidentale, vestendosi in un certo modo e avendo i cellulari, probabilmente per essere accettati da questa realtà in cui si trovano a dover vivere. Dietro a tutto questo, però, c’è un contenuto emotivo importante.
Perché sono importanti secondo lei iniziative di coinvolgimento come queste aperte sia ai migranti che ai cittadini?
Sono importanti perché la musica ha uno scopo fondamentale, quello dell’integrazione: suonare tutti insieme significa non creare differenze, quindi soprattutto riuscire a suonare sia assieme a persone che sono di qui, che vivono a Udine, sia con altre persone che vengono da una realtà completamente diversa e che pensano in modo completamente diverso perché la loro cultura è molto diversa. Il fatto di poter usare la musica per cercare di bypassare il linguaggio e soprattutto i giudizi e gli stereotipi, secondo me è fondamentale, perché, altrimenti, le barriere mentali che noi abbiamo quando vediamo una persona diversa difficilmente vengono abbattute nonostante i nostri buoni propositi. Per cui credo che la musica possa essere uno strumento quasi necessario per vivere questa integrazione.
Il concerto di beneficienza per Ospiti in Arrivo intitolato “Tavels: paesaggi sonori dal mondo”, realizzato assieme alla Scimmia Nuda e presentato al Teatro San Giorgio lo scorso 11 marzo in occasione della fine del laboratorio di percussioni, è stato descritto come “concerto senza confini” , perché era il pubblico che veniva portato a relazionarsi con musiche e ritmi inconsueti. Perché, in generale, i è importante questo “scambio di ruolo” e cosa crede che abbiano imparato gli spettatori da questa esperienza?
In quell’occasione, ho avuto la fortuna di poter suonare con dei musicisti straordinari. sia dal punto di vista tecnico, perché veramente hanno fatto sentire ai ragazzi una musica di altissima qualità, sia dal punto di vista umano perché hanno accolto il progetto con un’umanità straordinaria. Il fatto che noi fossimo sul palcoscenico insieme ai ragazzi, i veri protagonisti, è stato importante proprio perché sul palcoscenico si può cambiare: sul palcoscenico
Perché sono importanti secondo lei iniziative di coinvolgimento come queste aperte sia ai migranti che ai cittadini?
Sono importanti perché la musica ha uno scopo fondamentale, quello dell’integrazione: suonare tutti insieme significa non creare differenze, quindi soprattutto riuscire a suonare sia assieme a persone che sono di qui, che vivono a Udine, sia con altre persone che vengono da una realtà completamente diversa e che pensano in modo completamente diverso perché la loro cultura è molto diversa. Il fatto di poter usare la musica per cercare di bypassare il linguaggio e soprattutto i giudizi e gli stereotipi, secondo me è fondamentale, perché, altrimenti, le barriere mentali che noi abbiamo quando vediamo una persona diversa difficilmente vengono abbattute nonostante i nostri buoni propositi. Per cui credo che la musica possa essere uno strumento quasi necessario per vivere questa integrazione.
Il concerto di beneficienza per Ospiti in Arrivo intitolato “Tavels: paesaggi sonori dal mondo”, realizzato assieme alla Scimmia Nuda e presentato al Teatro San Giorgio lo scorso 11 marzo in occasione della fine del laboratorio di percussioni, è stato descritto come “concerto senza confini” , perché era il pubblico che veniva portato a relazionarsi con musiche e ritmi inconsueti. Perché, in generale, è importante questo “scambio di ruolo” e cosa crede che abbiano imparato gli spettatori da questa esperienza?
In quell’occasione, ho avuto la fortuna di poter suonare con dei musicisti straordinari. sia dal punto di vista tecnico, perché veramente hanno fatto sentire ai ragazzi una musica di altissima qualità,sia dal punto di vista umano perché hanno accolto il progetto con un’umanità straordinaria. Il fatto che noi fossimo sul palcoscenico insieme ai ragazzi, i veri protagonisti, è stato importante proprio perché sul palcoscenico si può cambiare: sul palcoscenico assumo un’importanza che, se sono seduto tra il pubblico non ho, e, quindi, in qualche modo il pubblico, è riuscito a vedere questi ragazzi non come i ragazzi che camminano per la strada e magari non sanno bene dove andare a vivere o che cercano ospitalità e che spesso assumono, appunto, nei loro occhi un carattere ostile, ma come performers. La città ha risposto benissimo a questo perché veramente è venuta tantissima gente e ho capito che, insomma, l’umanità c’è, esiste anche a Udine, non è solo una credenza.
Se dovesse riassumere questa esperienza usando tre parole, quali sarebbero?
Ah beh… allora sicuramente… beh la prima parola sarebbe accoglienza, perché veramente, ho potuto imparare meglio il significato di questa parola e me lo hanno insegnato proprio quei ragazzi. L’altra parola direi che potrebbe essere rispetto. La terza parola… sono indeciso fra alcune però quella che sceglierei è spontaneità, ma spontaneità nel senso che questi ragazzi, anche se hanno suonato un musica che non era propriamente loro visto che anche loro con questi telefonini, con YouTube, con internet sono influenzati molto dalla musica e cultura occidentale e certo, alcuni conoscono la musica tradizionale ma la stragrande maggioranza ascolta la stessa musica che ascoltiamo noi, ma “spontaneità” proprio perché i ragazzi hanno spontaneamente scelto di suonare questi strumenti, in qualche modo hanno vissuto delle emozioni e sono stati veri quindi spontanei e lo scopo era anche quello di far sentire questi ragazzi così, cioè non tanto impauriti, non tanto guardinghi, non tanto riservati nel provare tutte queste emozioni un po’ tossiche.
Lei ha anche realizzato un laboratorio di vocalità e di percussioni per i detenuti nelle case circondariali di Tolmezzo, Pordenone e Gorizia. mi racconti un po’ di questa esperienza: in che cosa consisteva questo percorso, com’è stato percepito e qual era lo scopo finale?
Allora diciamo che due sono stati i percorsi, uno più breve e uno più lungo. Quello più lungo riguarda un percorso di espressione vocale, per cercare di dare la possibilità ai carcerati di potersi esprimere, attraverso la voce e le canzoni, togliendo qualsiasi giudizio, lasciando scorrere la sensibilità. Dare la possibilità di esprimersi può anche permettere a qualcuno di scoprire un tessuto emotivo che forse è un po’ assopito, perché chiaramente l’ambiente in cui vivono non è così confortevole, o per lo meno è un’ambiente limitante per definizione. L’altro percorso, invece, è stato, sostanzialmente, una serie di concerti nelle sale circondariali con uno dei miei progetti musicali, con un gruppo di musica irlandese. Questo tipo di musica ha comunque un carattere molto allegro e dinamico, che coinvolge. Questo, soprattutto a Gorizia, è stato accolto in modo estremamente positivo, tant’è che alcuni ragazzi hanno pure cantato insieme a noi, quindi è stato veramente importante perché abbiamo accolto un’umanità in realtà molto fresca, dei valori inaspettati. Nel carcere di Tolmezzo, ad esempio, sostanzialmente viene proposto questo laboratorio, i carcerati aderiscono e io entro nel carcere, ma prima di arrivare nella sala devo fare un percorso particolare, la sensazione di tutte queste porte che mi si chiudono alle spalle mi fa capire un pochino dove sono, ed è un’ambiente sotto un certo punto di vista surreale: questi ragazzi arrivano e non sono tristi, non sono depressi, cioè, si, si capisce che insomma hanno una sofferenza dentro, però hanno una grande energia, hanno voglia di fare, di mettersi in gioco per cui sostanzialmente si svolge come un laboratorio di voce qualsiasi, di espressione vocale, chiaramente da parte mia c’è un’attenzione di cercare di accogliere le loro richieste, di non essere troppo rigido, di dare delle regole ma di non essere troppo duro in modo di cercare un compromesso che possa rendere soddisfatto me del lavoro che faccio ma anche che possa dar loro la possibilità nel cantare una canzone di poterla vivere e quindi di poter rivivere emozioni che in carcere difficilmente si provano. Durante l’incontro, quindi, c’è questo discutere sul brano, sull’interpretazione, sulla canzone ma alla fine si parla di emozioni, lo stratagemma è quello di usare la musica, si parla di vite raccontate attraverso le canzoni, ma poi al termine del laboratorio ci si saluta e quello è il momento più strano perché loro tornano in cella mentre io esco, sono libero e quindi da quel punto di vista la situazione sembra quasi surreale perché loro apparentemente sono tranquilli, ma quando si esce dal carcere si capisce veramente dove si era, non si sente quando si è entrati, è più forte quando si esce, si capisce veramente che cosa significa la libertà e il valore enorme che ha, quindi dare anche una mano a questi ragazzi di assaporarla un po’ a parer mio è importantissimo.
Dopo aver realizzato numerosi laboratori, quali sono i progetti che ha in programma per il futuro?
Spero di continuare a fare progetti sulla vocalità e sull’espressione vocale sicuramente nel carcere di Tolmezzo e in quello di Gorizia, che è un carcere un po’ più problematico, per cui diciamo che sarà una sfida in più. Poi mi piacerebbe fare altri concerti proprio per il discorso di portare qualcosa di importante a questi ragazzi. Credo che farò anche altri laboratori per questi ragazzi di Ospiti in Arrivo e dovrò concordarmi con loro, insomma, anche perché alcuni ragazzi hanno trovato casa qui, altri si sono trasferiti, altri sono a Roma a chiedere il permesso per cui è una realtà estremamente dinamica e non scontata. Un’idea sarebbe anche quella di portare avanti il progetto nato con “Travels”, con il concerto che abbiamo fatto con “La Scimmia Nuda” e dare una continuità, proprio perché questo messaggio non sia stato soltanto una meteora nello spazio ma qualcosa che possa mantenere vivo un discorso, un dibattito più ampio. Quindi, in un certo senso, il progetto non si è concluso, è iniziato e adesso vedremo che sviluppo potrà avere.