“Fuma persino il Gargano con tutte quelle foreste accese, turista tu canti e balli e io conto i morti di questo paese\ tra un palo che cade e un tubo che scoppia \ dove la mafia schizza i  lavoratori e se ti ribelli vai  fuori\ Puglia mia ti porto sempre nel cuore quando vado via”.

E’ questo il sud Italia di Caparezza, è questo il sud descritto nello spettacolo Orestea nello sfascio, dove la  tragedia greca di Eschilo rivive in chiave contemporanea e “buffonesca” grazie al collettivo InternoEnki diretto dalla giovane  regista  Terry  Paternoster.  Il nucleo della compagnia  di Roma è stato ospitato in residenza artistica  per un breve periodo a Udine a Contatto Residenze , qui si è allargato accogliendo altri attori ed insieme hanno  potuto sviluppare e approfondire il progetto di studio e ricerca sulle possibili forme di messa in scena attorno  all’ opera di Eschilo.

Lo spettacolo è stato presentato sul palcoscenico del Teatro S. Giorgio di Udine lo  scorso novembre, attualmente è impostato in 14 scene che andranno a comporre lo spettacolo in forma conclusa, che debutterà nel 2017. A mio parere il risultato è molto convincente già in questa forma grazie alla bravura degli artisti e all’importanza dei temi trattati.

L’ Orestea del Collettivo internoEnki ci narra lo “sfascio” della società moderna e prende come soggetto una cittadina del sud Italia del Sud Italia, dove il benessere di uno, molto spesso raggiunto illegalmente, è più importante del bene di un’ intera comunità. E così i protagonisti si destreggiano in una storia dove l’ illegalità la fa da padrona. Oreste ha abbandonato la sua famiglia poiché la sua omosessualità era ormai oggetto di forti pettegolezzi in città. Torna nel paese natale per assistere al funerale del padre a cui non aveva mai dichiarato il suo profondo amore. La madre Clitemnestra ormai rimasta vedova cerca in tutti i modi di estinguere i debiti ereditati dal marito e scopre con la collaborazione di Egisto, che il metodo più semplice è quello di convertire la cava di famiglia in una discarica abusiva di rifiuti tossici e poter guadagnare così i “picciuli” con un giro di fatture false. Oreste scopre i piani diabolici della madre in un confronto con la sorella. Qui la regista allestisce una scena corale che vede gli attori divisi in due schiere  che prendono ognuna le parti di uno o dell’ altro. Elettra potrà sposare l’ amato Pil, da cui aspetta un figlio, solo dopo il trigesimo del padre. La celebrazione del matrimonio prende vita in una festosa scena dove gli attori si destreggiano in balli e canti. La crisi di valori che attanaglia questa famiglia arriva al culmine nella scena del litigio tra Oreste e la madre Clitemnestra. La musica e le luci conferiscono particolare durezza alla scena allestita in modo più individuale. Questa sfocia nell’ uccisione di Clitemnestra per mano del figlio. Viene compiuto questo tremendo atto per la rinascita a nuova vita di Oreste, ma anche per la comunità intera che avrebbe vissuto nell’ inquinamento prodotto dalla discarica. Fortunatamente lo spettacolo ha un epilogo positivo: dopo tre anni la cava diventa un parco dove i bambini possono giocare e tra quei bambini vi è anche il figlio di Pil ed Elettra, simbolo di speranza per un futuro migliore.

Alla fine resta, però, un senso di amarezza che sento molto forte in me proveniendo proprio da questa terra dove i temi trattati sono ormai quotidianità e hanno dato spunto alla celebre canzone “Vieni a ballare in Puglia” di Caparezza, scelta proprio in chiusura dello spettacolo. La canzone con il ritmo allegro della pizzica racconta le piaghe che causano lo sfascio del Sud e di questa Orestea. Grandi applausi finali del pubblico che si fa coinvolgere nelle danze dagli attori, un modo per abbandonare l’ amarezza. Con la pizzica cerchiamo di sperare in un futuro migliore.