Quona maso n’cono n’cudeka”

Ci vuole pazienza per riuscire a guardare negli occhi della lumaca

Canti, balli, urla, rabbia e speranza, tutto questo è Aisha.
Aisha, ex ragazza soldato ivoriana, raccontata da Aida Talliente, giovane attrice friulana diplomata all’ Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “S. D’Amico” di Roma. Aida viaggia in tutto il mondo alla ricerca di storie dimenticate, riportandole poi in scena.
L’abbiamo incontrata dopo aver visto lo spettacolo “Aisha un frammento d’Africa” al Teatro S. Giorgio di Udine per la rassegna contro la violenza alle donne “Passi avanti” organizzata dal Comune di Udine. E ora che stiamo per rivederla in scena, fra le protagoniste di due spettacoli – Cenerentola e Pinocchio – con la regia di Fabrizio Arcuri, a Teatro Contatto dal 16 al 25 febbraio 2017, vi facciamo sapere cosa ci ha raccontato.

Come definiresti il teatro in tre parole?

Impossibile! Non ce la farei. Ci sono tante parole… facciamo che siano tre parole senza le quali il teatro non esisterebbe. Stupore, assolutamente. Relazione. E la terza, sembra banale ma non lo è: amore. Amore per ciò che si fa, per la passione che uno ha. Senz’altro ce ne saranno altre tre più belle, ma queste sono le prime che mi vengono in mente.

Quale è stato il momento in cui hai pensato “voglio fare l’attrice”?

In realtà non c’è stato un momento in cui ho pensato: “Oh, ecco cosa mi piacerebbe fare.” Sono nata così. Fin da piccola mi piacevano determinate cose: mi piaceva sentire le storie, mi piaceva giocare con le storie. Magari all’inizio ancora non associavo questo al teatro perché la mia più grande passione era dipingere; poi alle medie, grazie ad un mio professore che mi ha obbligata a fare un corso di teatro, ho conosciuto questo mondo… Alle superiori facevo parte del gruppo del Palio Studentesco e finite le superiori il mio desiderio era quello di lavorare come attrice, di studiare come attrice. Dopo un anno in cui mi ero iscritta all’Università, lavoravo e facevo altre cose, ad un certo punto mi sono detta: “Ma che cosa sto facendo?”. Quindi ho iniziato a prepararmi per i provini e ho tentato l’esame d’ammissione nelle tre scuole più grandi d’Italia, Genova, Milano e Roma, e sono entrata in tutte e tre! Ho scelto Roma, e quindi ho studiato all’Accademia Nazionale, dove ho lavorato tanti anni con un gruppo straordinario di amici e con loro ho cominciato a fare viaggi di lavoro.

Lo spettacolo di Aisha è partito da questo gruppo di lavoro?

Assolutamente sì, con dieci di questi miei compagni abbiamo creato un gruppo e l’idea era quella di andare a cercare materiale portando ciò che sapevamo fare. E’ stato fondamentale avere un’amica antropologa che facesse da tramite. Lei ci diceva: “Ragazzi c’è bisogno di andare in quel posto, lavorare con quelle persone, e su quell’idea”. Per un viaggio di questo genere c’è bisogno di una lunga preparazione, e soprattutto di un gruppo che sappia viaggiare insieme. In Costa d’Avorio, in Malawi e in Africa in generale le condizioni sono difficili e si impara anche a farsi il “pelo sullo stomaco” perché si viene a contatto con tutte le problematiche della popolazione . Non si tratta solo di andare lì, fare gli spettacoli e tornare indietro. Infatti quando si tornava in Italia c’era bisogno di altri mesi e mesi di lavoro per costruire qualcosa che raccontasse ciò che avevamo visto.Penso che il teatro sia l’arte più tridimensionale, soprattutto perché fatta di relazione con le persone, di costruzione di un immaginario e della costruzione dei sentimenti di una partitura che ti porta ad attraversare diversi stati d’animo. Dopo l’Africa ho sentito il bisogno di iniziare un nuovo percorso da sola, sono tornata che mi sentivo 10 anni più vecchia; là tutto è violento, sia le cose belle che le cose brutte. In Costa d’Avorio sono entrata in stretto contatto con una di queste ex-ragazze soldato, Aisha, e da questa relazione è nato lo spettacolo. Anche se ho poi lasciato il gruppo, ho continuato a seguire le tracce di quello che avevamo iniziato.  Per parlare di un argomento bisogna il più possibile cercare la situazione di cui si va a raccontare. Il problema di Aisha, per quanto riguarda me, è che non ho mai vissuto una situazione di guerra. Certo, ho visto le ragazze soldato, ma le ho viste per poco tempo, un  mese non è niente, non riesci ad assimilare, ad assumere totalmente una fisicità e una vocalità.

Il tuo modo di interpretare Aisha adesso è diverso rispetto a 10 anni fa?

Assolutamente sì. Ho cominciato il viaggio di Aisha appunto nel 2008 e avevo 30 anni. Ero molto più vicino alla sua età allora di quanto non lo sia ora. Le prime volte che facevo Aisha sentivo tanta rabbia, erano la commozione e il senso dell’ingiustizia a prevalere. Poi con il passare del tempo ho perso un po’ di tutto questo ma ho acquistato altro, c’è più dolcezza. Di questo spettacolo mi porto dietro quello che ho visto dell’Africa: i canti, le malattie delle persone, i colori e il nero dell’Africa, il sentir parlare di una guerra, e mi porto dietro una sola cosa della mia storia che risuona lì dentro: una grandissima solitudine, perché in questo spettacolo non c’è niente, se non una donna, dei pezzi di carta e una bambolina. E succede qualcosa quando io sono in relazione con questa bamboletta, perché quando alla fine la rompo e dico: “non c’è più nessuno qui…” è molto triste per me e lo è perché è molto triste quello che a volte nella vita succede, un sentimento universale, che colpisce sia me che il pubblico e che in questo caso è la solitudine. Questa è la cosa più vicina a noi dell’esperienza dell’Africa, perché queste ragazze sono sole, non hanno niente e Aisha aveva solo la sua bambina.

Sei rimasta in contatto con Aisha?

Non mi è stato possibile, purtroppo,  perché lei e le altre ragazze sono state inserite nel progetto “Ripartiamo” che si occupa del loro reinserimento nel mondo lavorativo e le seguono anche dal punto di vista psicologico; alcune riescono a ricominciare, altre no; infatti queste ragazze hanno visto di tutto, hanno visto far patti di sangue, sono state drogate, violentate, hanno avuto figli dai capi dei ribelli e altre cose terribili…

Quando siete lì, portate in giro spettacoli?

Si, quando eravamo in Costa d’Avorio io e un’altra ragazza portavamo in giro per le scuole, per gli ospedali e nei villaggi uno spettacolo sui diritti delle donne, perché in Africa mancano totalmente. Recitavamo nel modo più semplice possibile per far arrivare loro il messaggio.

A febbraio reciterai nello spettacolo Cenerentola/Pinocchio diretto da Fabrizio Arcuri. Hai già lavorato con lui?

Si l’anno scorso ho lavorato con lui. Fabrizio è molto paziente, ha un animo molto sereno e dimostra una grande intelligenza relazionale.  Nel mondo del teatro non basta il talento ma serve anche la capacità di intessere relazioni. Lui ti lascia fare e interpretare, ma ha la capacità di riequilibrare quando si va in eccesso o quando si va in difetto. Si fida molto degli attori, crea un clima di lavoro molto rilassato, cosa che non mi è mai capitata in 38 anni.

Teresa Bondavalli e Laura Pomella del Liceo scientifico Marinelli