Le esplosioni del 22 luglio 2011 trasformarono la tranquilla e ordinata città di Oslo in un vero e proprio scenario da film dell’orrore, causando la morte di 7 persone e facendo scatenare il panico fra gli abitanti di tutta la Norvegia. Questo terribile attacco, però, aveva il sommo scopo di attirare gli uomini dell’antiterrorismo e i soldati dell’esercito, e di tenerli occupati per alcune ore mentre la vera tragedia si stava svolgendo a pochi chilometri dalla capitale Scandinava in un’isola chiamata Utoya. Durante quell’estate, come ormai accadeva da parecchi anni , in quell’isoletta si stava tenendo lo storico campeggio per giovani ragazze e ragazzi socialisti di tutto il mondo, e quel 22 luglio sarebbe potuto essere un giorno sereno come qualsiasi altro. Invece, segnò per sempre la più grande strage su suolo norvegese dalla fine delle Seconda Guerra Mondiale e il più devastante attacco terroristico compiuto da un solo attentatore della storia; eppure, dopo lo shock iniziale sembra quasi un episodio dimenticato quasi non se n’è sentito parlare.
Lo spettacolo ospitato per la Stagione Teatro Contatto del CSS al Teatro San Giorgio lo scorso gennaio, intitolato proprio “Utoya”, con testo di Edoardo Erba, regia di Serena Sinigallia e interpretato da Arianna Scommegna e Mattia Fabris, aveva proprio questo scopo: dare una voce a quelle persone cui la gioventù è stata rubata da un proiettile senza quasi che nessuno se ne accorgesse, alle famiglie delle vittime che non erano pronte a salutare i propri figli, i propri fratelli, i propri cugini, uccisi da un pazzo estremista con una pistola e con l’obiettivo di radere al suolo il partito laburista partendo dalla radice, i giovani.
La scelta di raccontare un avvenimento tragico come la sconcertante stage di 69 ragazzi dal punto di vista della coppia di contadini che con l’attentatore aveva in comune solo il recinto del giardino di casa, dei poliziotti che si trovavano a pochi chilometri dall’isola e avrebbero potuto intervenire, ma che per un motivo o l’altro non l’hanno fatto, dei genitori di Cristine, una giovane ragazza che a Utoya avrebbe dovuto esserci, ma che ha preferito andare a farsi tatuare un Rolex sulla schiena, insomma delle persone non direttamente coinvolte, ma che comunque ne hanno sofferto le conseguenze, ha reso il tutto molto più reale e meno distaccato, costringendo lo spettatore a provare delle emozioni vere. Ognuno di noi si è ritrovato anche solo in parte in almeno uno di questi personaggi ed è stato proprio questo senso di vicinanza a suscitare in noi un momento di riflessione lungo ben più dell’ora e mezza di durata dello spettacolo: siamo tutti usciti da quel teatro con un peso in più sulle spalle, com’è giusto che sia, e realmente provati e cambiati da ciò che avevamo appena condiviso con gli attori. Hanno raccontato la trama, a mio modesto parere, molto intelligentemente in quanto hanno scelto di non svelare tutto subito, ma di srotolare pian piano il “fil rouge” che legava assieme tre storie completamente diverse, per cui, dopo la prima telefonata con la polizia di Oslo, è stato un crescendo di emozioni che non è concluso fino alla lunga attesa telefonata con Cristine. La rappresentazione si chiude con uno sguardo sulla vita dei nostri sei personaggi tre mesi dopo il tragico evento, così vediamo in che modo sono cambiati come persone e come scelgono di convivere con l’accaduto: ogni personaggio lo fa in modo diverso, ma ciò che gli accomuna è l’idea che la vita sia troppo breve per non viverla al meglio, per cui ognuno di loro introduce un cambiamento drastico nella vita che gli permetterà di essere più felici e di vivere senza rimorsi.
Olivia Bettella (Liceo scientifico Marinelli)
nella foto: gli attori Arianna Scommegna e Mattia Fabris incontrano i ragazzi
nel foyer del Teatro S. Giorgio al termine dello spettacolo