Overload è una performance nel corso della quale gli spettatori non solo possono, ma si devono distrarre. Nell’ambito del progetto Dialoghi_ Residenze delle arti performative a Villa Manin di Passariano, ideato dal CSS Teatro stabile di innovazione del FVG con l’ERPaC, il collettivo Sotterraneo ha aperto al pubblico le porte della Spazio di studio lo scorso 28 luglio 2017 per condividere una tappa del suo lavoro. Come premesso dal regista e autore Daniele Villa, Overload è tutt’ora in fase di studio e di creazione.

da sinistra Daniele Pennati, Claudio Cirri, Sara Bonaventura, Lorenza Guerrini, Giulio Santolini, Daniele Vill

Una performance in divenire che, nonostante ciò, ha già rivelato la sua grande e coinvolgente efficacia. Il concept intorno al quale il gruppo, formato da Sara Bonaventura, Daniele Villa, Giulio Santonili, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, si è concentrato durante la permanenza a Villa Manin mi è stato subito chiaro. È sulla stimolante disattenzione, sul continuo distrarsi a causa delle molteplici ma effimere tentazioni dall’universo 2.0 che Sotterraneo indaga nel suo Overload, letteralmente “sovraccarico”.

 

All’inizio c’è solo un attore in scena, che impersona lo scrittore David Foster Wallace. Ci guarda, il pubblico aspetta. Wallace si presenta, esitante. Parla lentamente e si fa subito riconoscere mediante alcuni oggetti: una pallina da tennis, gli occhiali, una bandana che porta sempre sulla testa. Precisa che è morto. E poi inizia un discorso che, al di là di tutto ciò che a breve si scatenerà attorno a lui, deve continuare fino alla fine. Un secondo attore compare, porta con sé un foglio con un simbolo nero: spiega che si tratta di un link, un collegamento, e che ogni volta che lo vedremo comparire accanto a un oggetto o a una persona, potremo alzare la mano per attivarlo. Nel frattempo Wallace continua a parlare, ma la sua voce scompare momentaneamente per poi ritornare percepibile. Noi ci concentriamo nuovamente su di lui, in breve tempo, tuttavia, anche il più attento degli spettatori sarà costretto ad abbandonare la sua concentrazione ogni volta che un link verrà messo in azione. Il discorso dello scrittore è interessante, piacevole da seguire, sfiorato spesso da un tocco di ironia, eppure viene interrotto: il collegamento, il primo di una lunga e martellante serie, catalizza subito gran parte della nostra attenzione. Nel corso dello spettacolo veniamo così sottoposti ad un incessante bombardamento di input: nuovi personaggi, scene, costumi, oggetti, suoni, voci, musiche, movimenti che si susseguono, che cambiano, che si trasformano davanti a noi, impossibili da ignorare. Alcuni link aprono situazioni più leggere, altri momenti drammaticamente molto intensi. Wallace è sempre lì, in piedi, al centro e sembra non accorgersi di tutto ciò che lo circonda. Semplicemente, va avanti, senza perdere il filo. Un filo che, però, il pubblico ha dovuto perdere per poter accogliere di volta in volta ciò che compariva sotto ai suoi occhi. Le parole di Wallace sono udibili solo ad intermittenza, separate dai link. Questi link sono le stesse tentazioni su cui noi siamo quotidianamente portati a fare click quando navighiamo su internet, o più semplicemente quando cerchiamo di focalizzare la nostra attenzione su una determinata attività. Tutti gli oggetti, i rumori, i colori, le forme e le persone che ci circondano costituiscono di per sé irresistibili richiami che agiscono come spugne assorbendo la concentrazione e dissipando i propositi. È questo l’effetto di obbligata distrazione, di frenetica sottomissione alla dimensione confusa delle nostre moderne esistenze che Overload fa vivere senza mai concedere il tempo di una sosta. Il pubblico, già sollecitato alla partecipazione dal meccanismo dei link virtuali, entra materialmente a far parte della scena quando la musica, d’un tratto, cambia e il ritmo sembra per un attimo rallentare. Una prima attrice si avvicina al pubblico e porge la mano ad uno degli spettatori, e lo stesso fa la seconda. Lentamente, sulle note di Run, Baby, Run di Sheryl Crow, si formano le coppie, in cui la differenza tra personaggio e persona scompare al ritmo di un lento. Anche gli attori invitano a ballare tre spettatrici. Uno di loro viene da me. Così entro anch’io nella scena, ballo il lento e non posso far altro che seguire la musica e sorridere. Mentre giro pian piano su me stessa insieme al mio “cavaliere”, posso guardare la scena da un’altra prospettiva. Sono entrata a far parte di un insieme di gesti e azioni che rendono ricca la sala, la cui scenografia, per questa prova aperta, conta solamente di una boccia con un finto pesce rosso. 

 

I venti minuti di questa prima tappa di Overload si avviano alla conclusione. La musica sfuma, gli attori scompaiono dietro i teli di nylon trasparenti adibiti a fondale, resta solo la voce fuori campo di Wallace. Ci chiede, provocando una risata generale, se conosciamo la ragione per la quale stiamo osservando un finto pesce rosso in una boccia di plastica, ora che non c’è più nulla, come aspettando che accada ancora qualcosa, pur di non fissare passivamente il vuoto. È a questo punto che mi rendo conto che, per l’intera durata dello spettacolo Wallace, idealmente, non ha mai abbandonato il discorso iniziale. E le idee, le riflessioni, le richieste sono diverse e interessate nel momento al termina della performance di incontro e di confronto con gli attori. Un dialogo tra di loro e noi incuriositi spettatori che, questa volta, alziamo la mano per porre domande, esporre le nostre impressioni e proporre anche qualche suggerimento!
Da parte mia, sento il bisogno di sottolineare ciò che forse, più di tutto, ha funzionato: l’incuriosita disattenzione del pubblico tra un link e un altro, ripetutamente messa in difficoltà ma infine come dissolta nell’apparente nulla in cui si muove il caos. Come mi viene confermato, Wallace non era una presenza qualsiasi, al contrario: doveva contendersi l’attenzione del pubblico nonostante l’incredibile varietà di nuovi scenari. Chissà cosa accadrebbe se nessuno dei collegamenti proposti durante lo spettacolo venisse attivato dal pubblico: una delle problematiche su cui la compagnia ha riflettuto è proprio la possibilità che diversi link non vengano selezionati. Mi chiedo quale sarebbe l’effetto se, in un’ipotetica realtà in cui nulla è sottoponibile a distrazione, potessimo eliminare quei persuasivi, ma pericolosi, link: forse riusciremmo ad ascoltare Wallace dall’inizio alla fine, nella speranza che tutto non stia per svanire di nuovo al suono di un click.

di Virginia Bernardis del Liceo classico Stellini

ph. Luigina Tusini