Formule mentali e calcoli matematici, dialoghi al limite dell’acrobatico, profondi rapporti umani tra fisici, che rinascono in “Copenaghen”, opera teatrale di Michael Frayn scritta nel 1998.
Il titolo sembra voler definire solamente l’entità spaziale in cui la vicenda si svolge e non la dimensione temporale, ma è proprio l’assenza di una definizione del tempo che conferisce un senso di straniamento e sospensione ad una storia che ancora oggi si nasconde dietro a misteriose ipotesi.
Tre i protagonisti: i fisici Werner Heisenberg, Niels Bohr e Margrethe, moglie di quest’ultimo, riuniti in una notte del 1941 nella capitale danese, occupata dalle truppe tedesche. Il motivo del loro incontro? Una semplice visita dell’allievo Heisenberg al maestro Bohr? Un pretesto di Heisenberg, tedesco che partecipò al programma nucleare nazista, per scoprire di cosa fosse a conoscenza Bohr, ebreo danese che in seguito collaborò con gli Alleati? O il giovane discepolo era mosso da un intento non politico, ma morale per ricercare assieme al suo mentore le implicazioni etiche della bomba atomica?
Una a parentesi enigmatica della storia del Novecento che porta con sé incertezze simili e trova la sua energica espressione teatrale, nell’opera di Michael Frayn.
Spettacolo di apertura della stagione di Teatro Contatto 36 del CSS, Teatro stabile di innovazione del FVG, “Copenaghen” torna nella nostra città dopo diciotto anni dalla prima rappresentazione della versione italiana, per la regia di Mauro Avogadro, e riporta in scena i tre grandi interpreti Umberto Orsini, Giuliana Lojodice, nei ruoli di Niels e Margrethe Borh, e Massimo Popolizio, in quello di Heisenberg.
Una conversazione post mortem a tre voci che pone le sue radici in un groviglio di piani tematici differenti: la famiglia, la fisica, l’etica.
I protagonisti fanno emergere i ricordi della loro relazione amicale e scientifica, Heisenberg rivive quell’incontro come il divenire concreto del principio di indeterminazione che egli stesso formulò, i coniugi Bohr partecipano a questa precipitazione del sistema quantistico con un’eco struggente che li riporta alla perdita del figlio. I richiami del passato, però, non costituiscono delle digressioni o dei salti temporali separati, ma convogliano in un’unica narrazione che si confonde continuamente, che ama portare lo spettatore in un limbo, che non necessita registicamente di cambiamenti drastici.

La sola scenografia nera, puntinata dal bianco del gesso sulle lavagne rimanda ad un’aula universitaria, ma è contemporaneamente la calda abitazione dei Bohr, una strada di Gottinga o lo spazio in cui le preoccupazioni inconsce dei personaggi mutano in parole fragili. Parole che sono sinonimo di tenacia per Margrethe, moglie e madre, capace di seguire il ritmo dello scontro verbale con osservazioni istintive che introducono nuovi dubbi e allontanano i due fisici da possibili ingenuità da entusiasmo scientifico. È delicato, poi, il suo rapporto con Heisenberg: se da un lato lo sente politicamente come un nemico, dall’altro emerge la sua parte materna e perciò prova affetto per lui ammirando le sue eccezionali qualità. Bohr, invece, fronteggia l’amico, con la consapevolezza che quella sera le sorti della storia siano state radicalmente cambiate; l’onniscienza dei personaggi, infatti, permette loro di dibattere sull’etica quantistica concedendosi anche aneddoti o scambi sarcastici. Il linguaggio, dunque, non è mai espositivo di fisica e ciò contribuisce a rendere questo spettacolo non un dramma scientifico o storico, ma l’incarnazione di questioni morali attuali che donano ancora oggi uno straordinario successo a quest’opera. “Copenaghen” è, pertanto, un’apparente bicromia logica, che si realizza in “quel nucleo finale di indeterminazione che sta nel cuore delle cose”.

 

Carlotta Frizzele del Liceo scientifico Marinelli