Sono in piedi nel corridoio del Teatro S. Giorgio di Udine e sto aspettando di entrare nella stanza dove si terrà la performance Pinter’s Anatomy per la Stagione Contatto 36. Cerco di restare immobile, ma ondeggio leggermente con le ginocchia, sto sudando: indosso il cappotto, ho le mani dentro le tasche. Arriva il mio turno: tocca a me entrare.Uno dei due autori mi accompagna dentro, mi posiziona vicino allo specchio e scherzosamente mi dice: “Se vuoi ti puoi specchiare”. Mi accorgo subito che stanno separando i “gruppetti”: vogliono che questa originale esperienza venga vissuta in solitudine, lontano da parenti e amici. Casualmente mi ritrovo proprio accanto alla mia amica, mentre vedo tutti gli altri spaesati che guardano il volto del vicino scoprendo, loro malgrado, che si tratta di uno sconosciuto. La musica continua a suonare, ci accompagna dall’inizio, inonda la stanza, percepisco le sue vibrazioni, come un fremito sotto la pelle. Questo suono, mescolato all’ansia per lo spettacolo, è una miscela esplosiva. Immobile, rimango in piedi, non posso sedermi fino a quando lo spettacolo Pinter’s Anatomy non si concluderà: quaranta minuti. Mi hanno detto di lasciare tutti gli oggetti personali nel corridoio, non devo avere alcuna distrazione. Sono nelle mani dello spettacolo. Sin da subito mi è chiaro che io spettatore sono il punto focale dell’azione. La piccola stanza funge sia da platea che da palcoscenico: gli attori ed io siamo sullo stesso piano. Vedo due stanze che si diramano dalla sala principale. In quella di sinistra l’immagine non è molto chiara: vedo un obitorio, mi sembra di scorgere un corpo nudo, sento una voce microfonata mentre a destra vedo chiaramente un albero di Natale, attorno al quale gli attori si muovono sinuosamente, hanno sul viso le maschere di Gatto Silvestro e Titti.

Stanno addobbando l’albero con dei cartellini. Le maschere dei cartoni nascondono una realtà crudele, diventano perfide. Sono come un sogno immaginario che, in verità, cela un violento incubo.Un attore si ferma di fronte ad una signora-spettatrice, cerca con evidente ironia, di identificare la donna, quasi parodiandola. A quattro spettatori gli interpreti danno dei cartellini dove devono scrivono i propri nomi: sono le “etichette della morte” si legano ai piedi dei cadaveri. L’emblema del Natale diventa l’albero dei morti. I cartellini pendono dai rami di pino come addobbi, insieme a graziose palline di Natale e altri ninnoli. Sono circondata da una luce verde che conferisce alla stanza un’aria più fredda: sale l’ansia. La luce verde si fonde con il bianco neon, una nota ancora più fredda, sembra di essere in un ospedale. Non avverto un clima famigliare: è troppo forte il distacco delle luci che separano la realtà degli spettatori dagli sguardi fissi degli attori. La scena rimane sempre la stessa, intuisco sin da subito che ricci/forte non hanno bisogno delle artificiosità. Intuisco che il loro spettacolo deve suscitare forti emozioni attraverso il solo uso sapiente della voce e degli sguardi. Non ho via di scampo: devo fare i conti con lo spettacolo, non ci sono delle rientranze né spazi bui che mi possono nascondere: un’unica stanza dove in campo emozionale tutto è possibile, ma nessuno applaude né si muove, bisogna rispettare l’emblematica scelta di ricci/forte di essere degli attivi spettatori silenziosi. Improvvisamente incomincia a parlare il corpo disteso dell’obitorio, sulla sua bocca scorgo un microfono. Il cadavere racconta di un’autostrada, di persone che ridono, di un telefono. La sua voce è pacata, non traspare alcuna emozione: è meccanica, una voce senza vita. Le maschere intanto avanzano verso di noi, un attore mi guarda, stringo forte il fazzoletto che tengo in tasca, è necessario che continui a sostenere lo sguardo: è una sfida. Sono un’ immobile marionetta giostrata dallo spettacolo. Sento la musica farsi sempre più vibrante. La temperatura sale vertiginosamente: un senso di solitudine, di piccolezza invade la stanza, è straziante. Gli attori parlano delle “prime volte”, diversamente raccontate a seconda che si tratti di un etero o di un omosessuale. Spesso le prime esperienze sono quasi squallidamente offuscate dalla memoria o dai sensi di colpa, ma tutte hanno in comune una natura turpe, amara ed aspra. Vedo violenza, non dà segno di voler cessare: è un odio gratuito. L’attrice tiene tra le mani delle bambole, che violentemente le vengono strappate via. Dei poliziotti o forse una banda picchiano il diverso: un ragazzo gay, lo insultano pesantemente “tossico, frocio”. Le sberle e i pugni sono veri: come nel mondo non c’è nessuna finzione sulla violenza, così anche lo spettacolo deve essere veritiero. L’attore è sbattuto veementemente per terra, non ha scampo: può solo subire l’umiliazione, mentre gli altri interpreti gli sputano addosso e lo picchiano.

Ora è il turno della donna, che ovviamente non può essere immune alla violenza maschile: viene segnata o meglio marchiata con dell’inchiostro blu, si agita, mentre la sua disperazione si intreccia con delle urla silenziose. Dopo la donna, ormai ricoperta di chiazze blu, anche gli uomini si spogliano: rivelano sotto i vestiti la loro umiliata intimità. Alla fine gli attori si legano all’alluce le etichette dei cadaveri e si infilano nei sacchi neri della spazzatura: ballano e saltano, sono felici. Mi ricordano dei paesani mentre si preparano alla corsa dei sacchi. Ma anche durante le scene più allegre, percepisco sempre insofferenze, amari ricordi, esperienze che incatenano i giovani con delle oscure manette. L’impalpabile aurea infelice è una costante dello spettacolo. Alla precedente ferocia e violenza corporale tra gli attori, adesso si contrappone la liberazione degli animi da una vita fatta di sofferenze; ormai sono liberi dalle umiliazioni, dai giudizi, dai sensi di colpa. I candidi corpi si chiudono nel sacco fino all’estremità e si gettano a terra: lasciano uno spiraglio solo per far uscire la libertà, la libertà dalla violenza. Tutto viene spazzato via: moriamo infilandoci nei sacchi neri della spazzatura.  Lo spettacolo è finito, silenziosamente mi dirigo insieme agli altri spettatori verso l’uscita, sono turbata. Devo ritornare alla realtà, una realtà cruda, di cui non ignoro le violenze, ma riconosco che questo spettacolo mi è servito, non tanto per ricordare le reali barbarie, dal momento che è impossibile dimenticarsene, ma per comprendere meglio e soprattutto per rivivere sotto gli innovativi e originali occhi interpretativi di ricci/forte, alcune delle più sconvolgenti facce della nostra società. Sono impressionata: dopo questa violenta esperienza è difficile concepire la tranquillità e i sorrisi dei ricci/forti, che- naturalmente – per nulla scossi ci accompagnano silenziosamente fuori dalla stanza, mentre i sacchi rimangono immobili senza vita sul pavimento. Pinter’s Anatomy è uno spettacolo, prodotta da CSS di Udine nel 2009 per il progetto Living Things Harold Pinter, un anno dopo la scomparsa del drammaturgo britannico e premio Nobel per la Letteratura. Pinter, un rivoluzionario del linguaggio, strumento di minaccia e di potere. Pinter ha usato il linguaggio in una chiave quotidiana, in un contesto famigliare, o ne ha sottolineato lo strumento di persuasione sociale da parte del potere. Pinter partecipò attivamente alla difesa dei diritti umani, contrastando gli abusi, i soprusi e la violenza della società in tutto il mondo. ricci/forte hanno reinterpretato i messaggi pinteriani, conferendo loro una nota quasi magmatica, trasportandoli in una chiave contemporanea. Stefano Ricci e Gianni Forte gareggiano con i ricordi del pubblico: in Pinter’s Anatomy si sfidano a duello la memoria degli spettatori e i messaggi pinteriani: il risultato è impressionante, grazie anche al contributo interpretativo dei giovanissimi attori: Giuseppe Sartori, Anna Terio, Pierre Lucat e Marco Agnelilli. In Pinter’s Anatomy il pubblico si dimentica del presente, dei pensieri che vagavano un attimo prima nella sua mente, per rivivere nel suo passato, che viene risvegliato attraverso una scenografia semplice e immobile, ma assai efficace.

Sara Lestuzzi del Liceo classico Stellini