Cabe a VHS Elegy firmato dalla giovanissima coreografa e danzatrice Giulia Bean, ha debuttatoin prima assoluta al teatro San Giorgio di Udine lo scorso gennaio 2020 per la Stagione Teatro Contatto

È il racconto di un padre, della sua morte e delle 349 videocassette da lui registrate, il tutto disegnato in una performance dai movimenti del corpo della figlia e da fili di nastro magnetico.

Giulia Bean ci svela alcune sue scelte nella sala stampa del teatro Palamostre:

Come hai trovato le cassette? Sapevi già della loro esistenza?

In realtà sapevo di queste cassette già da un po’, ma è solo quando ho deciso di trasferirmi che queste si sono poste al centro della mia attenzione assieme al problema di cosa farmene e all’interrogativo:” Ma perchè non le ho buttate?”. E così ho iniziato a guardarle, una per una. Guardare, ma senza giudicare.

È stato solo dopo una seconda visione che ho effettivamente iniziato a scrivere il testo di quello che poi sarebbe diventato “Cabe”.

Come mai hai deciso di costruire il tuo spettacolo a tappe in differenti Residenze?

Tutte e tre, io, la drammaturg Chiara Braidotti e la coreografa Vittoria Guarracino, che ha curato il movimento, proveniamo da Regioni di Italia differenti e molto distanti fra loro e quindi trovare un posto dove poter scrivere e creare lo spettacolo era effettivamente un problema.

A gennaio siamo state selezionate per un progetto che ci ha permesso di iniziare il nostro lavoro a Villa Manin. In questi quindici giorni abbiamo potuto realizzare i primi minuti dello spettacolo che, in un anno di continue revisioni e rielaborazioni, sono rimasti invariati.

Vincendo un secondo bando abbiamo potuto essere ospitate in Residenza a Gorizia e successivamente a Milano e Taranto. Quest’ultima tappa è stata essenziale per elaborare definitivamente la scenografia, scartando le molte che avevamo ideato nel corso del tempo.

Nella descrizione dello spettacolo hai usato la definizione “archetipo di padre”, cosa vorresti dire con ciò?

Durante l’elaborazione dello spettacolo abbiamo parlato con molte persone che visitavano le residenze in cui ci trovavamo e domandavamo loro quali fossero le esperienze che ciascuno aveva avuto con il proprio padre. Eravamo alla ricerca di risposte a molte domande: ci sono dei movimenti “tipici” che ogni padre fa ? Se ci sono delle memorie “collettive”, che ogni figlio conserva, quali sono?Nel rapporto con mio padre posso trovare quello di altre figlie o figli?

È da questi continui dialoghi, da questo intreccio che è nata una delle scene dello spettacolo, in cui compaiono le figure di padri, padri diversi, ma che hanno caratteristiche comuni fra loro e che possono essere inglobati in un unico archetipo.

Attraverso questi incontri il nostro pubblico ci ha donato parte delle sue memorie, parte del suo vissuto, storie e storie che ci siamo sentite di inserire all’interno dello spettacolo.

Alla fine qual è la tua idea di padre?

Ho riscoperto una forma molto ” femminista” di padre, qualcuno che sa essere disponibile e metta in primo piano l’educazione del proprio figlio. Mi ha dato speranza in un ruolo molto “aperto” di questa figura, un ruolo che può essere assunto anche quando non sono presenti legami di sangue.

Ciò che di più mi ha sorpresa è che riscoprendo mio padre ho riscoperto me stessa, capendo che non ero poi così diversa da lui. Questo confronto mi ha permesso di renderlo più” umano”: anche lui aveva dei difetti, solo che prima non riuscivo a vederli.

La mia danza svolge il ruolo di ponte tra il dualismo di un padre che non c’è più e un mondo anch’esso scomparso. È un’elegia per un morto che ha me in scena, la vita.

Cosa intendi con il termine “drammaturgia danzata”?

Questa definizione nasce dall’unione tra la presenza della danza, parte fondamentale dello spettacolo, e quella della mia drammaturg, la figura che ha dato un ordine a tutte le mie idee.

Avevo bisogno di qualcuno che contestasse le mie scelte e alzasse delle obbiezioni, mentre ciò di cui non sentivo la necessità era una drammaturga. Nello spettacolo non è presente alcun copione, perchè nella danza non c’è l’occorrenza nè di capire nè di avere a disposizione una storia. La danza è pura bellezza, e l’unica cosa che bisogna fare è “sentire”.

Appunto dall’esigenza di condurre lo spettatore lungo lo spettacolo attraverso un linguaggio non tradizionale è nata in me la necessità di essere “guidata” da una drammaturg. Chiara suggeriva delle modifiche al lavoro a livello del movimento e della sua “partitura emotiva”. È sempre lei a portare nuove chiavi di lettura.

Nei mesi in cui abbiamo lavorato alla produzione dello spettacolo io e Vittoria ci davamo un’ora di tempo per sviluppare diverse idee. Al termine Chiara arrivava per dare la sua impressione e revisionare il tutto. In questo modo ha limitato la miriade di concetti, riducendoli a pochi, chiari e “universali”.

Avevo la costante paura di essere sopraffatta dalle emozione e dai ricordi, e di presentare sul palco qualcosa che poteva dare un’impressione diversa da ciò che avrei voluto. Chiara mi ha permesso di portare tutto ciò che provavo e avevo dentro di fronte al pubblico, ma filtrandolo e inserendolo entro determinati limiti.

In che modo nello spettacolo compare la figura di Andy Warhol?

Da piccola ho visitato una mostra in cui erano esposte le Time Capsule  di Andy Warhol e ne sono rimasta fulminata. Egualmente mi ha spiazzata il modo in cui sia lui che mio padre, negli stessi anni, abbiano cercato di conservare tutto il ‘900: Andy nelle sue “capsule” e mio padre in VHS.

Posso infine dire che dal mio lavoro non mi aspettavo assolutamente nulla, ma sapevo che era qualcosa che dovevo fare. Non m’importava se fosse durato solo quindici minuti, io ho continuato a portarlo avanti nella speranza che sarebbe diventato qualcosa di grande.

Teresa Narghes Peresson, Liceo classico Jacopo Stellini